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La rinascita degli psichedelici a scopo terapeutico

Tendiamo a pensare per comparti stagni, faticando ad accettare che la nostra visione sia solo parziale. La mente umana è spesso rigida, e crea associazioni forti, che non corrispondono alla realtà. Per una persona su cinque al mondo, almeno una volta nella vita, queste associazioni portano alla diagnosi di una malattia psichiatrica. Pensiamo ad un soldato che torna dalla guerra e sente un rumore che gli ricorda quello della battaglia. Quel rumore, nel passato del soldato, era un segnale di pericolo, e il suo corpo si era adattato per reagire prontamente. Ora, a casa, il suo corpo si ridesta, scatenando un’onda di molecole nel suo cervello che lo fa sentire in pericolo, quando il pericolo non è in realtà presente.  Queste forti associazioni, che seguono eventi stressogeni quali violenze sessuali o domestiche, morti inattese, e incidenti, si trasformano per i più predisposti in una malattia nota come disturbo post-traumatico da stress. Una malattia invisibile all’esterno, ma che coinvolge importanti cambiamenti a livello del sistema nervoso. Tra questi, l’amigdala, centro cerebrale della paura, diventa iperattiva, mentre la corteccia prefrontale diviene viceversa meno attiva. Quest’ultima è responsabile della nostra capacità di leggere il mondo, capire, e, unendo i nostri pensieri e obiettivi, iniziare l’azione. Infine, l’ippocampo, importante per la creazione di nuove memorie e per provare piacere, rallenta.

 

Lo studio degli psichedelici come agenti terepautici nacque negli anni Cinquanta del secolo scorso e soltanto in seguito gli psichedelici si diffusero nei “free parties”, quindi furono condannati dalla legge. Il dibattito sugli psichedelici sta rinascendo, e, fra tabù e ostacoli della legge, la ricerca scientifica riprende a lavorare su queste molecole, per capirne i meccanismi d’azione e renderle agenti terapeutici sicuri ed efficaci. Curare: questo è l’obiettivo ambizioso. Sì, perché gli antidepressivi oggi disponibili, come gli inibitori del reuptake del neurotrasmettitore serotonina (ad esempio, il Prozac), alleviano il dolore, ma non risolvono alla radice. Al contrario, gli psichedelici sono noti per favorire la crescita di nuove sinapsi nella corteccia prefrontale. Sinapsi che creano connessioni nuove, che rompono associazioni antiche e dolorose. L’idea di portare molecole psichedeliche alla clinica potrebbe già divenire realtà quest’anno negli Stati Uniti con la MDMA (comunemente detta ecstasy, droga psicoattiva nota per uso ricreazionale), come afferma il pioniere Rick Doblin (Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies). Anche la psilocibina sta riportando risultati promettenti in studi preclinici. La somministrazione sarà altamente controllata, in centri con personale formato, ed associata alla cura psicologica, a partire dai soggetti con depressione grave. Un approccio di questa sorta, tuttavia, poco si presta alla traslazione su grande scala: una sessione richiede preparazione, e vigilanza medica durante l’assunzione, che spesso prevede dosi importanti; inoltre, gli psichedelici presentano effetti avversi, in primis la comparsa di allucinazioni, e sono controindicati se il soggetto è già in cura per altri motivi.

 

Su queste osservazioni e con la volontà di ottimizzare gli psichedelici, mantenendone il beneficio terapeutico ma eliminando gli effetti tossici, nel dicembre 2020, David Olson (University of California, Davis) e colleghi pubblicano un articolo che fa ben sperare. Come racconta Olson ai microfoni di Bio Eats World, lo psichedelico (già in uso) ibogaina stimola la ricrescita di sinapsi nella corteccia prefrontale. La ricrescita è innescata dall’attivazione dei recettori a cui si lega la serotonina, ma questo psichedelico provoca anche forti allucinazioni per via di una massiva eccitazione cerebrale generalizzata, ed aumenta l’incidenza di attacchi cardiaci. L’idea di Olson e colleghi è di separare questi due effetti, benefico e tossico. Come spesso si fa in farmacologia, i ricercatori testano diverse modifiche chimiche della molecola iniziale.

 

Olson e colleghi procedono su colture di neuroni in vitro, e solo successivamente provano i composti più promettenti nelle cavie, svolgendo test comportamentali con un protocollo affermato di disturbo post-traumatico da stress. I risultati sono ottimi, e gli autori vanno oltre, provando la molecola su modelli animali di alcolismo e dipendenza da eroina. Queste due patologie sono accomunate fra loro e con il disturbo post-traumatico da stress per via della forte riduzione delle sinapsi prefrontali. I topi sono addestrati alla dipendenza da eroina associando una luce e un suono all’esperienza piacevole della droga, che imparano ad autosomministrarsi premendo una levetta. In seguito, viene tolta la droga, e i topi imparano che premere la levetta non porterà a nessun “reward”, così smettono, simulando l’individuo che cessa il consumo della sostanza. Il problema grave, però, è la persistenza dell’associazione, per cui coloro che hanno fatto uso di droghe sono più a rischio di riprendere a farne uso. Nell’animale, questo “relapse” che innesca il comportamento di rinnovata ricerca attiva della droga ha luogo se vengono ripresentati la luce o il suono, che l’animale aveva associato alla droga. Somministrando lo psichedelico sviluppato da Olson e colleghi, invece, il comportamento di ricerca della droga svanisce. Il risultato, confermato anche nel modello di alcolismo, è molto promettente, e sulla stessa idea di fondo il gruppo di ricerca sta già sviluppando nuovi composti per diverse malattie.

 

E se volessimo prevenire, invece che curare, il disturbo post-traumatico da stress e altre malattie della psiche? Come i vaccini prevengono l’infezione virale o batterica, Rebecca Brachman (University of Columbia) racconta a TED (Technology, Entertainment, Design) che sta sviluppando molecole chiamate “resilience enhancers”, ovvero “potenziatori della resilienza”. La storia di queste molecole nasce dall’osservazione che la ketamina (droga spesso usata ai fini anestetici) previene significativamente gli effetti dello stress, quando iniettata nella cavia prima che questa sia sottoposta ad un evento stressante. Il gruppo della Brachman sta scoprendo anche altri composti capaci sostanzialmente di preparare il cervello affinché l’evento stressante non lo impatti troppo: queste molecole sarebbero importanti per trattare persone soggette a stress professionale, come i membri delle forze dell’ordine e i soldati. Se sapremo superare molti pregiudizi, i prossimi vent’anni si prospettano floridi per gli psichedelici, verso un mondo in cui sappiamo prevenire e curare lo stress.